I Maya a Palenque

Nel 1841 lo scrittore e viaggiatore americano John Lloyd Stephens scrisse dopo aver visitato le rovine della città Maya di Palenque, nel Chiapas messicano: “Nel fantastico romanzo d’avventure che è la storia del mondo, nulla mi lasciò l’impressione più forte dello spettacolo di questa città, in passato grande e bella, oggi devastata, desolata, perduta”.
E’ una fitta foresta pluviale quella che dissimula le meravigliose rovine di Palenque, annidata sulla cresta di alcune basse colline: è un luogo da visitare all’alba o comunque il mattino presto, prima dell’arrivo di decina di pullman di turisti.
Passeggiare fra le rovine di quello che è probabilmente il più affascinante centro Maya, con la nebbia che si insinua tra la giungla in una dimensione quasi irreale, da un senso di magia forse unico al mondo.
Il vero nome di Palenque è Lakamba, “il luogo delle grandi acque”, anche se oggi, la zona archeologica prende il nome della vicina città di Santo Domingo Palenque, fondata alla fine del sedicesimo secolo.
In spagnolo Palenque – Patrimonio dell’Umanità dal 1987 – significa “rifugio”, “recinto per cerimonie”, ma anche “empalizada”, con riferimento ad una trave rotonda in legno per proteggere il sito, ma soprattutto indica una delle zone più famose ed interessanti di tutta la Mesoamerica.
Per raggiungerla si percorre uno stupendo itinerario attraverso boschi, giungla e savana, con un’imperdibile tappa ad Agua Azul, da San Cristobal de la Casas, una bellissima cittadina di oltre 70 mila abitanti, a poco più di 2 mila metri d’altezza.

Agua Azul, un altro tra i luoghi più belli del Messico, dove un mare di acqua azzurra – per il colore del fondo del fiume Otolum che l’attraversa – scende dalla amontagna in decine di rapide e cateratte che alla fine sfociano in un’enorme cascata dove è un piacere fare il bagno.
Questo, ovviamente, quando il clima è secco: durante la stagione delle piogge invece, Aqua Azul si trasforma, assumendo un aspetto minaccioso, con decine e decine di tronchi trascinati a valle dall’acqua, da lontane foreste, con il rombo onnipresente del grande fiume che precipita.
Lasciata Aqua Azul, ecco, finalmente Palenque: il villaggio appare in fondo ad un lungo rettilineo; il clima, all’arrivo, è umido e le zanzare, grosse e fastidiose.

Solitamente, per poter compiere la visita alle rovine al mattino presto – i turisti, come detto, sono pochi, il paesaggio è più bello ed è più facile evitare la pioggia quasi quotidiana della tarda mattinata o del pomeriggio – potrebbe essere necessario dormire in uno dei numerosi alberghi della zona ( se ne possono trovare a prezzi adatti a tutte le tasche).
Dopo una notte passata praticamente in bianco per l’emozione di trovarsi in in questo luogo meraviglioso, ecco l’alba, segnalata anche dai versi degli animali della giungla e dagli strilli bizzarri delle scimmie Aluatta, finalmente si parte, destinazione i Maya.
Visitando i resti di questa città dopo secoli di oblio e le cui costruzioni si estendono in modo apparentemente disordinato tra la vegetazione, l’impressione è non solo di fascino, ma anche di mistero.
La città fu scoperta nel 1784 da José Antonio Calderon, che realizzò la prima esplorazione ufficiale del sito, seguito, un anno dopo, da Antonio Bemasconi che fece uno studio più dettagliato degli edifici.
Palenque fu assieme a Tikal e Calakmul, una delle città più potenti del Classico Maya, sede di una delle dinastie più importanti, quella appartenente a Pa Kal.
Il monumento sicuramente più interessante di Palenque è il “Tempio delle Iscrizioni”, edificato sopra una piramide di 21 metri di altezza, risalente proprio al settimo secolo d.C., frutto di diverse ricostruzioni e rimaneggiamenti.
Nel 1949 un archeologo messicano, Alberto Ruiz, scoprì che una delle grandi lastre del pavimento presentava una serie di fori che, forse, dovevano servire a sollevarla.
La supposizione si rivelò esatta: una volta tolta la lastra, si scoprì che da quel foro, si poteva accedere ad una serie di gallerie che penetravano per 18 metri sotto il livello del suolo, più sotto quindi, del livello della stessa piramide, sino a raggiungere una cripta in cui era una tomba nella quale venne trovato un sarcofago finemente intarsiato.
Al suo interno lo scheletro di un uomo di età compresa tra i 40 e i 50 anni, forse appartenente ad un uomo chiamato Pa Kal, (che visse tra gli anni 603 e 683 d.C. e che, a quanto sembra regnò 67 anni), scheletro che fu trovato ricoperto di gioielli di giada, ora conservato al museo di Città del Messico.
Contiguo al Tempio delle Iscrizioni, si innalzano su una piattaforma piuttosto alta, Il tempio del Teschio e il tempio della Regina Rossa: sui due edifici si vedono sulla cima i resti di templi, che servirono, probabilmente, come tombe di personaggi di spicco della dinastia del sito.
Il Gruppo delle Croci, è costituito dai Templi della Croce, del Sole e de la Croce Foliata, tre piramidi a scala coronate con templi che commemorano l’ascesa al trono, dopo la morte di Pakal el Grande, del signor Chan Bahlum II e mostrano il nuovo Signore ricevere la grandezza dalle mani dei suoi predecessori.
Il Tempio del Sole si distingue per le sue creste alte più di 4 metri, con all’interno la tavola del Sol, intagliata su pietra calcare.
Il Tempio della Croce, è il più alto del complesso: l’entrata al recinto è fiancheggiata da due lapidi lavorate, che rappresentano due uomini sfarzosamente vestiti: il primo si suppone sia il governante Jaguar Serpiente  e il secondo una divinitàdell’oltre tomba.
Nel Tempio è inoltre raffigurato, sotto forma molto stilizzata di Croce, l’albero mitico Vahom Che su cui è posto l’uccello Quetzal: a ogni lato dell’albero sta una figurazione umana, forse un sacerdote, in atto di offerta. Due lunghe iscrizioni in glifi maya completano il quadro
Infine, sulla cima di un piccolo colle, si innalza il Tempio della Croce Foliata, la cui facciata frontale e il contorno sono gravemente danneggiati, risalente al 693 d.C.
L’abbondanza dei resti archeologici, architettonici, pittorici, testi scritti, hanno fatto di Palenque un luogo essenziale perché gli archeologi decifrassero le linee della scrittura maya e le sue storie cosmiche.
Tra le curiosità che sino ad oggi non hanno trovato una risposta, su una pietra tombale maya ritrovata nel Tempio delle Iscrizioni è ritratta una figura umana in una posa che ricorda quella di un viaggiatore spaziale intento a pilotare un veicolo a razzo.
L’uomo sembra impugnare i comandi di guida, e nella parte posteriore del veicolo compare una struttura (un motore?), da cui fuoriescono quelle che appaiono essere fiamme. Altri dettagli suggeriscono la presenza di un sedile, di un apparato di respirazione e di una struttura esterna affusolata che ben si concilia con l’aspetto di un veicolo a razzo.
L’immagine è stata portata all’attenzione del pubblico dallo scrittore svizzero Erich von Däniken che, a partire dal suo libro Ricordi del futuro (1968), l’ha interpretata come una testimonianza della visita all’umanità da parte di viaggiatori extraterrestri, avvenuta, secondo l’autore, in tempi remoti e della quale si sarebbe in seguito persa la memoria.
Secondo le teorie dello scrittore, riprese ed ampliate anche in Italia da Peter Kolosimo, gli antichi contatti con civiltà aliene avrebbero tuttavia lasciato traccia in alcuni manufatti, dei quali la pietra di Palenque costituirebbe uno degli esempi più convincenti.