Caos calmo. Lockdown.
Corrispondenze dall’India

Avvolti nel silenzio risplendono di luce il cielo e l’aria, che finalmente sa di buono.

Ha smesso di bruciare la gola, l’aria indiana è irriconoscibile a se stessa. Anche io, a tratti, mi riscopro un po’ diversa. Un anno che passando s’è preso trecentosessantacinque giorni, tutti nuovi tra loro. Giorni che ho divorato. Giorni che ho bevuto a garganella, come chi, non sapendo che sarà, vuole sia. Sempre vita, anche in questi apparenti istanti tutti uguali, che uguali non sono mai. Mentre attendo, sull’uscio attendo il nuovo. Attendo con la mia solita impazienza che s’è fatta più matura. Ma mai ragionevole. Mai arrendevole. Mai rinunciataria. Mai saggia.

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Fuori il caos di cui non so. O so a intermittenza, sempre filtrato dal velo della propaganda. La mia bolla di vita effimera lascia spazio alla preoccupazione d’un cielo troppo perfetto, un’aria troppo cristallina, un volo pindarico che dona troppa gioia. Solo a me.

A pagare il prezzo di questa partita sono sempre loro, gli ultimi, i più deboli. Questo Lockdown divora le briciole. Quelle dei venditori di strada, quelle di chi sopravvive ogni giorno. Espedienti per arrivare a domani.

Il cibo arriva ancora qui dentro. Ma fuori?

Passo dall’ottimismo alla paura, in un attimo. “Andrà tutto bene” cede il posto al “non so che sarà”. Eppure, la sola idea di lasciare questo Paese mi angoscia. Mi sento un capitano e questa la mia imbarcazione. Voglio portarla in salvo, voglio indirizzarla e se anche le onde mi spazzano via, se anche il vento è troppo forte, se anche in balia del domani, ho bisogno di esserci. Stare qui. Per quanto inutile presenza, io ci sono e tengo le mani attaccate a quel timone che è diventato tutt’uno con me. E anche la bussola, impazzita, non mi vieta di alzare gli occhi al cielo e farmi guidare dalle stelle. Quelle sono luce da sempre. Le stelle indicano la direzione a naviganti di tutti i tempi, e tutte le epoche, e tutte le storie di questa umanità. Disperata e speranzosa. Cosciente e incapace di comprendere. Allo sbando ma consapevole, come me.

India da tutte le parti. India immobile. Bloccata. Sotto chiave. Fuori di qui.

Spaurita e coraggiosa. Butto un occhio alla cambusa e immagino il domani senza questo silenzio.

Quando la vita rianimerà le strade. Quando riprenderò a percorrere mercati, esplorare angoli e vicoli, quando la fiumana si rimetterà in moto. Quel moto perpetuo ed inarrestabile che s’è preso i miei giorni, quelli sino ad ora, quelli del prima, quelli della libertà, dell’agire indisturbata.

Manca ieri, come fosse aria. L’energia del vivere al ritmo che mi è più congeniale. Seduta, di corsa, con passo lieve o deciso, al mio passo, con la mia sensibilità, il mio sentire. Con la necessità di dare sfogo a tutta la curiosità di cui sono capace , di cui mi nutro, grazie alla quale io vado. L’andare che non ho mai interrotto in questi mesi indiani. Questi miei mesi divorati, succhiati sino in fondo, ingoiati e mai rilasciati. Se non ora. Ora mi nutro di ciò che ho fatto mio. Del prima. Ciò di cui mi sono appropriata in questo tempo. Ero il contenitore vuoto, ero la spugna, ero un libro di fogli bianchi. Un libro non scritto. Ero e sono mille volte diversa. Tutto quello che ho raccolto nel mio vagabondare è qui. Ogni istante mi regala un’emozione, un ricordo, un profumo nell’aria. Ora che in parte è già scritto. Ora che raccolgo quest’anno, che ne raccolgo fogli svolazzanti buttati qua e là. Che il vento scompiglia, smarrisce, scombina. Un anno che pare un secondo. Un anno di luci ed ombre. Un anno di vita. Che m’ha fatta, ha dato forma ulteriore a quel pezzo da plasmare, da maneggiare con cura. E da oggi si riparte col quarantanovesimo anno della mia vita. Che amo ogni giorno di più. Che mi gioco. Sul quale sono pronta a scommettere.

E via.

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