Splash.
Corrispondenze dall’India

Splash.

Maledico qualche santo. -Sveglia Raf sei in India!-, mi dico.

Il piede, la scarpa  rossa si inabissa, affonda nel fango molle, limaccioso, di questa giornata di monsone.

Merda.

Capita dai, non importa.

La sfilo, cerco di eliminare il grosso, darle una ripulita, con scarsi risultati, ma così è.

Sfilo anche l’altra e mi avventuro tra pozze di fango e acqua alle caviglie. A piedi nudi, la mia modalità preferita.

-Merda!- Speriamo non lo sia. Non mi stupirei certo se ce ne fosse un po’.

Piove. Chi non conosce questa pioggia non sa, non immagina cosa sia la pioggia. La pioggia che allaga, che si prende le strade, la pioggia che rovescia, la pioggia che trascina, che spaventa, che distrugge. La pioggia che travolge e medica.

Mi riparo sotto la tettoia con altre quattrocentoventisei persone. Densità alta, altissima in effetti.

Accalcati, fradici e in attesa che spiova. Inutile dire che qui sotto sono l’attrazione principale. Ma io sorrido e parlo un po’ con tutti. Io inglese, loro hindi, eppure ci si capisce, quando lo si vuole, ci si capisce. Vado di gesti, mimo, sorrido e abbatto barriere, ci provo. Mi piace farlo, ne ho bisogno per catturare vita. Pezzi di vita. Per catturare anche loro. C’è chi mi chiede pure un selfie. Ma sì, ammazziamo l’attesa. Alla fine questa situazione tragicomica è un’occasione e io non voglio lasciarmela scappare. L’occasione per mescolarsi.

Aspettiamo spiova. Poi sarà un caos recuperare un taxi o un risciò che abbia voglia di avventurarsi in queste strade trasformatesi in canali.

Ma una soluzione la troveremo. Ne sono certa. In India c’è una soluzione per tutto. La soluzione è sempre lì, maledetta, che ti osserva, sei tu che talvolta non la sai vedere.

Intravedo un “Mall”. Sono quasi salva.

Aspetterò che spiova.

Aspetterò.

In India si impara ad aspettare. Si impara la pazienza. Si spera. Si alzano gli occhi al cielo. Si prega. In India il tempo è un concetto astratto. Il tempo non è mai tiranno. Fluttua in questo pantano che trasforma strade in fiumi. Galleggia come spazzatura senza approdo.

La pazienza è parte del DNA indiano, per forza, non può che essere così. Non può essere altrimenti perchè qui sotto, nell’attesa, nessuno si è spazientito. Sorridono di rassegnazione. Come se tutto fosse già stato scritto e noi fossimo solo minuscole particelle perdute nel microcosmo.

Ogni volta che uno straniero si scoccia, e qui capita, capita spesso, c’è qualcuno che lo invita a sedersi.

“Sit down sir”. Con quel tono quasi divertito. Quel sorriso appena accennato. Quello sguardo benevolo e superiore di chi ha compreso tutto della vita.

Sedersi e attendere. Attendere un funzionario, un medico, attendere. Attendere un documento che manco esiste. Un turno che turno non è. Attendere che la fretta smetta di guidare la nostra vita. Attendere congiunzioni astrali favorevoli. Attendere un segno, una porta che si apre, una parola sulle labbra, una parola mai detta.

Attendere che le passioni lascino spazio alla calma. Attendere l’altra faccia di noi, quella che non sapevamo di possedere.

L’atto del sedersi si trasforma nella porta tra il se’ e il resto.

Ma sappi che se ti siedi loro ti colonizzano. Ti siedi e divieni altro. Smetti di essere te stesso e quel bicchiere d’acqua tiepida che ti porgono si trasforma in una pozione magica. In India ne sono convinti. Acqua tiepida che purifica, una medicina per l’anima e per il corpo. Un ristoro.

Poi la preghiera. L’atto del divino. Che non è per forza divinità,  è essenza, essenza di ogni essere.

Alzare gli occhi al cielo e attendere un segno.

Anche una miscredente lo fa, sapete? -tu in cosa credi?-. -Io?…Io credo negli altri e in me-. -Credo nel libero arbitrio, nella ragione. Che domande fate…?-. Gli indiani sono curiosi. Sono maledettamente curiosi. -Sono italiana- rispondo io,

–  cattolica per lignaggio. Per osmosi-.

I celti si domandavano spesso se il cielo stesse per cadere. Quando si scuriva, se diveniva nero nero. Era una domanda ricorrente: -il cielo sta per cadere?-.

Oggi me lo domando anch’io ed azzero diversità. Oggi mi sento esattamente come loro, in balìa del cielo, nel fango, sotto la tettoia, senza scarpe, nell’attesa che tutto passi. E l’attesa diventa compagna di tempo, che mi avvicina sempre di più a questo mondo, questo contenitore indiano. Io qui mi stupisco di come i cambiamenti in me siano quotidiani. Mi stupisco di queste dieci, cento, mille persone che so essere. Mi stupisco dell’effetto che questo Paese ha su di me. Dell’amore che trovo, della paura che fa, dello straniamento, delle infinite possibilità di pensiero.

Dei mille volti del vivere.

Il cielo non cadrà.

Cadranno solo barriere, distinzioni. Cadranno retaggi. Cadrò pure io probabilmente. Tutti noi cadremo per poi rialzarci trasformati.

Non può che essere così.